UNA VITA IN ALTO

05/04/2024

C’è una frase, nel prologo, che chiarisce tutto. Il salto, e il senso della vita, in tre consonanti e due vocali. Ed è bene partire da qui, volendo ragionare su una pubblicazione che ha nella riconoscibilità il pregio essenziale, grande merito di uno tra i professionisti più rigorosi, per molteplicità d’impegni e qualità realizzative, di una Rai immersa nei difficili passaggi tra un secolo e l’altro. Dinanzi ad un gigante dello sport un rischio incombeva: cedere al registro celebrativo. Ricostruendo cronache appassite, testimonianze dirette, blindando certezze, lasciando intatti sentimenti ed emozioni, mai aggredendo il lettore, traendo frutto dal rapporto di lungo corso con la più assoluta delle discipline olimpiche e da una fruibilità professionale maturata da giovane collega nelle lunghe confidenze vissute a fianco di Tito Stagno e di Paolo Rosi, Marco Franzelli ci ha restituito con impeccabile scrittura, e altrettanta sensibilità, l’aria familiare e il ritratto compiuto della massima atleta italiana del ventesimo secolo e di una generazione che ebbe uno dei modelli dominanti in una ragazza nata e cresciuta nella normalità rurale d’una dignitosa famiglia della provincia veronese. In altre parole, quanto scritto su Sara Simeoni è un montaggio, senza zone d’ombra, della seducente e non inquieta liturgia agonistica di un’atleta eccezionale provvista di capacità creative di tali singolarità da accompagnare, come una progressione rossiniana, le sorti di una disciplina alla sua eterna ricerca di un’eterna palingenesi. Una disciplina proiettata a bruciare le tappe della notorietà sulla spinta di un inesausto trascinatore, di un formidabile archimandrita a nome Primo Nebiolo, disposto ad imporla, e con essa sé stesso, con la forza dell’istinto, la lucidità dell’intelletto e la potenza dei gomiti.

Da quando la ragazza veronese, tradendo gli iniziali accostamenti alla danza classica, poggiò i piedi su una pedana di salto, da quel momento, aspirazione antica quanto l’uomo, molto prima quindi dell’uomo da Vinci, alzarsi al cielo divenne il suo mestiere, trasformando progressivamente l’eleganza del gesto tecnico e l’inedito della sua raffinata dimensione verticale – fraseggio teso, esatto, pura calligrafia – in un’umanità da esportare e in una categoria storiografica applicata allo sport. Senza corredi retorici, Franzelli ci conduce con leggerezza attraverso le tappe agonistiche della carriera della veneta, “donna alfa” secondo onesta ammissione di colleghe in sport, figlia tra le predilette di una grande regione attraversata da meravigliosi spazi culturali e da un retroterra sportivo capace di produrre nella piccola cintura di Costermano, poco più di tremila abitanti e una manciata di miglia da Rivoli, colosso tra colossi, Adolfo Consolini.

Quando, il 13 aprile del 1953, nasceva la protagonista, l’atletica, e l’intero sport, respiravano i primi veri ossigeni dopo le convulse riappropriazioni di spazi immediatamente successive alle nefandezze della guerra mondiale. Venendo meno a quanto concordato con l’avversario svizzero, maglia rosa avviata al successo finale (a te, Hugo, il Giro, a me, Fausto, la vittoria di tappa), dall’alto d’una classe immensa e di un sovraccarico di stimolanti adeguato all’eccezionalità dell’impresa (sarà lui stesso, unico probabilmente nella storia del ciclismo, a dichiararne l’uso e l’abuso), sulla trappola dello Stelvio Coppi costruì a spregio di Koblet una delle sue imprese più leggendarie. Nella medesima stagione, intramontabile di nome e di fatto, Gino Bartali celebrava sulle strade toscane la sua eterna giovinezza. Con un inedito organizzativo, l’atletica presieduta da Bruno Zauli aveva convocato in settembre, per i campionati assoluti, uomini e donne per la prima volta assieme. Lo stadio era l’Olimpico rinnovato in spazi e strutture appena inaugurato dall’infausto 3-0 con cui l’Ungheria di Ferenc Puskas, una delle più potenti macchine da guerra allestite nella storia del calcio mondiale, aveva liquidato la Nazionale italiana alla centonovantesima partita di una storia avviata nel maggio del 1910 all’Arena napoleonica, maglia bianca con stemma sabaudo, quattromila spettatori, amichevole con la Francia. Allo stadio romano vinsero Pino Dordoni sui dieci chilometri di marcia e Armando Filiput sui quattrocento ostacoli, Carlo Vittori cento e Tonino Siddi nel giro di pista, Giacomo Peppicelli d’un soffio sull’irriducibile fuscello Niculin Beviacqua portato in trionfo sotto la Monte Mario da Consolini e Tosi. Giuseppina Leone cento e duecento, Loredana Simonetti ottocento con primato nazionale e il terzetto Amelia Piccinini, Edera Cordiale e Ada Turci in incetta rispettivamente di peso, disco e giavellotto. L’Inter di Benito Lorenzi, di Ghezzi, Skoglund e Nyers saliva al vertice del calcio, mentre un’altra truppa milanese, quella eterna di Cesare Rubini, di Gamba, Stefanini, Pagani e Romanutti, cuciva sulle maglie dell’Olimpia Borletti il quarto scudetto consecutivo della pallacanestro.

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Messo a fuoco, da una parte dalla sottolineatura delle contrarietà di vita e delle promesse non mantenute, dall’altra dalla vertiginosa notorietà nata dall’incrocio televisivo esploso in piena maturità, il racconto di Sara s’apre con la serenità della fanciullezza, la rete dei sentimenti familiari, la trasparente naturalezza dei rapporti con i genitori, la semplicità delle emozioni adolescenziali. I primi approcci sportivi. L’avvio all’atletica. Gli esordi nazionali, timidi e tuttavia premonitori. Il trauma del primo raduno collegiale a fronte delle irrequietezze verbali di Vittori. La Parigi giovanile del 1970, a Colombes, in compagnia di Pietro Mennea e di Franco Fava, nel vecchio stadio che aveva ospitato nel 1924 l’ottava edizione dei Giochi olimpici, lo stadio di Ugo Frigerio, di Eric Liddell, di Harold Abrahams, Sam Mussabini e Vangelis. Helsinki 1971, campionati europei nel santuario dell’atletica, ore del trionfo di Franco Arese, del piccolo grande miracolo offerto sulla pedana dell’asta dall’immensa generosità di un Renato Dionisi massacrato nei tendini e della folgorante apparizione continentale di Marcello Fiasconaro. Fu un punto di partenza, un importante tassello. Ma fu, soprattutto, un segnale. Subito dopo, il battesimo olimpico, inizio d’un lungo viaggio insieme con Erminio Azzaro. Grande fu lo stupore della diciannovenne dinanzi alla grandiosità degli impianti. L’emozione in pedana, lei rimasta colpita dall’esplosione di una ragazza a nome Ulrike Meyfarth, sfacciata sedicenne nata a Francoforte sul Meno a quattro passi dalla casa-museo di Goethe. Infine, lo smarrimento delle ultime ore in una Monaco resa infame dall’agguato dei terroristi palestinesi.

Il racconto prosegue con la festa romana del 1974, giusto quaranta anni dalla prima edizione continentale celebrata a Torino. Inseguita dalle note e dal canto libero dell’aedo di Poggio Bustone, la presenza severa e purtuttavia privilegiata, parallela a quella vissuta da Mennea, in una Scuola Nazionale di atletica trasformata in presidio tecnico ed esistenziale. Il colpo grosso, quattro anni dopo Monaco, oltre Atlantico, sul campo canadese di Montreal, un sorriso d’argento che nel gergo giornalistico avrebbe aperto la strada ad un’infinità di imitazioni, la crescente sintonia con il prossimo sportivo e il filo simbolico che avrebbe legato l’atleta veneta, avendone raccolto il seme, alle grandi italiane del passato, lontano e recente: l’Ondina Trebisonda Valla dell’Olimpiade berlinese, fidanzata d’Italia secondo etimo popolare, Claudia Testoni con i suoi primati mondiali e il titolo continentale di Vienna, Giusy Leone e la sua meravigliosa medaglia romana, unica nella storia olimpica italiana sui cento metri avanti la Tokyo del 2021 di Marcell Jacobs, e le nuove frontiere dello sport femminile aperte da Paola Pigni sulle piste, sulle strade e sul fango dei cross internazionali.

Il primo, inebriante Everest segnato, nella carezza di un campo scuola, dal volo sovrano dell’agosto del 1978. Il corteo trionfale, con abiti regali e drappelli di adoratori, improvvisato da Nebiolo come un pellegrinaggio pagano sull’isola di Torcello dinanzi alle pietre consunte di un trono che abilità di mercati turistici suggeriscono attribuire ad Attila, il Flagellum Dei che nel quinto secolo dopo Cristo fece strame di mezza Europa. Lo Strahov del 1978, nella Praga di Mendel, Kafka e Jan Masaryk, trasformato in una ipnotica quinta teatrale e ridotto a frigorifero nel trentuno di agosto climaticamente più ostile nella storia dell’atletica, contro colei che fu per più stagioni avversaria organica: Rosemarie Ackermann, imbattuta superstite di uno stile di salto che negli anni Sessanta aveva trovato il profeta in un giovane dal talento smisurato sottratto da Pëtr Stein alle rigidità delle steppe siberiane e trasformato da Vladimir Djačkov in un esecutore cui fu istintivo assegnare un primato, la perfezione: Valerij Brumel. Mesi prima di quell’agosto, assieme a quello di un ammirato esegeta come Giacomo Crosa, che con la regia di Romolo Marcellini ne avrebbe tratto un raro, prezioso documento, nell’inverno milanese lo sguardo di Sara si era bloccato sulla strepitosa meteora ucraina costituita da Volodymyr Yaschenko, un anno avanti che le ali di un marziano sceso in terra, mortificate da incidenti e abusi alcolici, venissero definitivamente e drammaticamente ripiegate.

Nella potenza scenica di un evento che costrinse l’azienda di Stato a stravolgere orari radiofonici e palinsesti televisivi di prima serata cedendo spazio al micidiale corpo a corpo di due donne divenute belve, e nell’orgogliosa esclusività di un’assiderata tribuna stampa, per i selezionati appartenenti alla sacralità di una disciplina, culto dell’uomo secondo lezione breriana, quella serata praghese fu qualcosa più di un rischio alle coronarie. Fu un codice di riconoscimento, un atto di superbia collettivo, intatto nella sua unicità e tale consegnato ai posteri da coloro che Oscar Eleni, tra i più ispirati della compagnia, definì “credenti”. Un episodio, un evento da segnare tra i massimi del nostro ventesimo secolo, Dorando del 1908 e Braglia del 1912, Nadi del ’20 e Beccali di Los Angeles e Valla del ‘36, Bottecchia e Bartali dei Tour, Coppi dell’uomo solo al comando, Colò di Aspen, Carnera del ’33, Berruti di Roma, Bonatti del Petit Dru, Emilio Comici del Civetta, Tazio Nuvolari della Vanderbilt, Tomba, Deborah Compagnoni e Stefania Belmondo sulle nevi del mondo. Dopo quel giorno doppiamente magico, reso multiplo dalle imprese reiterate di Mennea e di Venanzio Ortis, la consacrazione di Mosca. Con un titolo olimpico che fu nulla più dell’esecuzione di una scontata ordalia dopo l’improvviso vuoto d’anima subentrato all’ingresso in pedana, le gambe assenti e il respiro rappreso, quando dalla tribuna sarà l’urlo di Erminio a rimetterla in vita.

Erano stagioni, quelle del ’70 e dell’80, in cui i calendari d’atletica, diversamente da altre discipline olimpiche, mantenevano cadenze dilatate, come la quadriennalità dei campionati europei all’aperto, modificata tuttavia nell’attività indoor, nella quale Sara Simeoni mise in fila, quasi mimesi automatica, da implacabile collezionista, quattro affermazioni, San Sebastian 1977, Milano 1978, Sindelfingen 1980, Grenoble 1981. La presenza ai vertici sarebbe stata poi brutalmente incrinata prima ad Atene, nel 1982, teatro della prima consacrazione internazionale sul rettilineo d’arrivo di Alberto Cova, e l’anno successivo in un battesimo finlandese dei campionati mondiali segnato dalla velenosa contrarietà di un grave incidente muscolare. Ingoiato l’insulto e spazzati i detriti, dallo smarrimento alla guarigione il passo fu breve, e l’improvviso capolinea fu cancellato al punto che si gridò al miracolo quando l’atleta, ultima di grandiose annate, consegnò all’incredulità del prossimo e alla fantasia degli osservatori la sua definitiva verità reinventandosi altezze e classifiche nel paradiso olimpico di Los Angeles. Dove tuttavia coincidenze maligne le fecero ritrovare in pedana, vergine e immutata nella sua seconda o terza giovinezza, una seconda o terza pelle, la meno amata delle sue amatissime nemiche, l’antica avversaria di Monaco 1972.

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Quelle di Sara Simeoni furono epoche in cui le rare volte in cui l’atleta incappava in un salto sbagliato, più che un tributo alle tabelle statistiche, l’esito si traduceva in un’offesa all’estetica. Furono infatti stagioni in cui pedana e asticella, con l’esattezza di un bisturi ed effetti dinamici perfetti, furono sempre amanti fedeli, stagioni in cui la cronaca faceva spesso irruzione nella storia, e ogni salto, attimo fuggente nella sua ineludibile diversità, aveva comunque l’imprevedibilità di un primo tentativo e l’aspirazione di un’Atlantide da raggiungere. Se in un campo di atletica si può provare distacco dinanzi ad una partenza dai blocchi o all’allungo di un mezzofondista, impossibile incorrervi quando un atleta, quale il suo valore, sia posto dinanzi ad una barriera da superare e ad uno spazio da conquistare in presenza di quel grande suscitatore di pensieri che è il silenzio. Negli oltre quindici anni di carriera, raramente la protagonista di tale realizzazione agonistica ebbe, dinanzi a quella barriera, problemi di identità. Quando poi l’usura iniziò a mutarsi in fragilità, prima che il crepuscolo diventasse notte l’essere umano prevalse sull’atleta. Accadde dunque nel 1986, quando per il suo ultimo salto Sara Simeoni scelse la familiarità di una pedana lontana dai riflettori, facendo probabilmente coincidere la sua apparizione finale con il tramonto di un’idea sul modo di intendere l’atletica. Sarebbero passate tre, quattro generazioni agonistiche, e solo allora le leggi dello sport avrebbero consegnato i primati dell’atleta del secolo ad una strepitosa ragazza di Cava de’ Tirreni, Antonietta Di Martino, che un incrocio di destini aveva fatto nascere nel 1978, la stagione di Brescia e di Praga.

L’86 scelto da Sara per il suo addio alle pedane fu coincidente con un periodo storico in cui l’atletica nazionale, aggiornando la nobile accademia trasferita negli anni ’30 dalla California da Boyd Comstock e rappresentata poi per anni da Giorgio Oberweger, da Giuseppe Russo, da Nicola Placanica e da Alessandro Calvesi, aveva da tempo innervato nuova linfa alla cultura tecnica con l’innesto della ricerca scientifica. Nucleo primario, quanto costituito dal Centro Studi federale battezzato a viale Tiziano da Gianfranco Carabelli e da Gianni Benzi, e spiccate individualità sparse, dal Friuli alle Isole, sull’intero territorio nazionale. Fu un periodo in cui il mondo atletico internazionale aveva da poco accolto a braccia aperte, in particolare negli stadi europei, salutata come una nuova antropologia, la profezia dominante lanciata sulle medie e lunghe distanze dai corridori provenienti dagli altipiani africani. Un mondo in cui, in linea con la messa in atto del meglio elaborato nel campo della ricerca, cresceva a velocità esponenziale, doppia, quadrupla, su binari opposti, in grazia di una malsana interpretazione dell’approdo allo sport e sciagurata monade di riferimento, la tendenza a privilegiare le vie più spedite, quali che fossero, utili ad abbracciare il successo. Tema fastidioso, ma merita qualche rigo.

Anche l’atletica patì tossicità e grandi malati. Su tutti, per congiunture mediatiche, quanto accadde ai Giochi del 1988. Protagonista, un canadese di maglia e giamaicano d’origine a nome Benjamin Sinclair Johnson. Il caso esploso all’alba di martedì 27 settembre, ora di Seul, tra le provette del laboratorio olimpico della capitale sudcoreana, rappresentò, di quelle tossicità, l’esclamativo. Ma l’intero podio di quella finale dei 100, Carl Lewis, statunitense, vincente dopo la squalifica del canadese, e Lindford Christie, britannico, secondo classificato, lasciò seri dubbi sulla correttezza dei due medagliati. Non passò molto, e i dubbi trovarono piena conferma quando si scoprì che entrambi avevano ingoiato alla vigilia olimpica intrugli farmaceutici. L’uno e l’altro furono in realtà testimonianza di come sia oltre Atlantico sia in quell’isola europea cui pure si dovette la ripresa umanistica dello sport moderno la maschera di ferro della verginità fosse una plateale menzogna. Inevitabile coincidenza di vizi, fu pari, il caso di Ben Johnson, sia ai miasmi celati per decenni e per intere generazioni di agonisti nella segretezza degli Istituti di scienza di Mosca o di Lipsia, negati alle verifiche del prossimo se non agli amici della confraternita, sia alle cadute degli dei che in vari momenti avrebbero coinvolto, in altre discipline, celebri individualità. Tre nomi su tutti, allacciati dalla notorietà, Maradona nel calcio, Marco Pantani e Lance Armstrong nel ciclismo, non raramente elevati ad eroi moderni da pigrizie informative sconfinanti nella connivenza, e da sbrigativi allestimenti di statue, dettati dalla stupidità umana, nei vicoli o sulle pubbliche piazze.  

Su Sara Simeoni si scrisse molto, in Italia e all’estero, e non rare furono le pagine che avrebbero meritato essere tradotte in antologia. Due, in chiusura, piace ricordare. La prima, scritta a caldo, per firma di Giovanni Maria Lòriga, uomo e giornalista con l’atletica nel sangue: “Alle 17.18 Sara Simeoni ha effettuato l’ultimo salto di una prodigiosa carriera, consumando l’atto definitivo di una storia atletica esemplare, tenendo compagnia allo sport italiano per venti anni, donando esaltazioni, speranze, brividi, mai delusione, toccando un vertice indimenticabile, quell’opera d’arte che la vide uguagliare il suo stesso primato del mondo e conquistare il titolo europeo”. La seconda, di Giovanni Arpino, scrutatore di sentimenti che rese spesso nobili, come pochi, le cronache sportive: “I lunghi occhi ridenti, e poi umidi, e poi di nuovo ridenti di Sara, questo è il tesoro che ci hanno lasciato vecchie genti logorate dalla storia. Capirlo è niente, rispettarlo indispensabile, farne tesoro sarebbe fortuna per tutti”.

Quando dall’antica Ichnusa giunse la notizia dell’abbandono agonistico di Sara, fummo in molti a dirle grazie, tutti coscienti di come realmente ai suoi decolli verticali si fosse a lungo aggrappata la parte migliore dell’atletica e, con essa, dello sport e della società nazionale.


Augusto Frasca

(Postfazione al volume Una vita in alto, di Sara Simeoni con Marco Franzelli)“

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