“Ahimè, Mardonio, contro quale specie di uomini ci hai mandato a combattere, uomini che non per denaro disputano le loro gare, ma per l’onore!”
La frase di Erodoto (tratta dal libro VIII delle Storie) – attribuita a Tritancteme, figlio di Artabano – è l’incipit di “senza cena” ed è riportata in greco sulla copertina, sotto una foto in controluce di Attila Viragh, Mauro Mandara, Renato Funiciello, ripresi mentre corrono in riva al mare di Ostia. Quasi un’anticipazione della ben più celebre immagine – del 1982 – di “Chariots of fire” di Hugh Hudson.
Più che a Erodoto, “senza cena” è dedicato “al giovane sangue”.
Ma cos’è “senza cena”? Un modesto opuscolo di un’ottantina di pagine pubblicato da Alfredo Berra [1928-1998] nell’estate del 1960, alla vigilia dei Giochi di Roma. Contiene, tra l’altro, la storia del suo autore, arrivato a Roma da Torino il 7 maggio 1951, chiamatovi da Zauli e Stassano, dopo un suo intervento al Congresso di Ancona come delegato del Piemonte. Con l’incarico di occuparsi del settore statistico della FIDAL e di collaborare con il “Corriere dello Sport” per l’atletica leggera.
E’ la storia della lenta affermazione di un’idea. E del primo seme dell’atletica leggera nella scuola, in anticipo di qualche anno sul progetto di Zauli. Erano, quelli, tempi di estrema morigeratezza e di cinghie strette, quando il superfluo era già un lusso, nel senso che c’era poco da mangiare e ancor meno per lo sport e, a maggior ragione, per il più povero degli sport. Berra, quel tempo, lo avrebbe ricordato in rare occasioni, ma solo dopo aver smesso le sembianze di affamato “profugo polacco” e l’approdo alle opulenze della “Gazzetta”, avvenuto all’indomani degli Europei di Belgrado (1962), chiamatovi dal “sergente” Zanetti (il quale, impossibilitato a fare il CT della nazionale di calcio, si contentava di dirigere la “rosea”, senza dimenticare d’aver corso i 100 metri in improbabili sfide contro Giuseppe Melillo, che a sua volta – più o meno nello stesso periodo – avrebbe diretto il “Corriere dello Sport”).
Giornali di una volta, compitati da giornalisti di una volta per lettori di una volta …
L’introvabile “senza cena” è conservato da una generazione di pochi sopravvissuti che vi trova, specchiata in poche pagine, la propria giovinezza e i nomi di coloro che l’hanno accompagnata. Un lascito comune di appartenenza: aver fatto parte di quel sogno, consente di ritrovarsi, giovani e complici, ad un’età che – per chi ce l’ha fatta – oscilla ormai tra i settanta e gli ottanta. Con un solo rimpianto (come scrisse Funiciello sul letto di morte): l’impossibilità di trasmettere ad alcuno la ricchezza di quegli anni di povertà.
Perché l’essenza di quell’opuscolo resta soprattutto la storia di un sogno: costruito e vellicato giorno per giorno, quando tra i campi romani ci si muoveva a piedi e poteva capitare di dover andare a letto … “senza cena”. In tempi di dotto e supponente “sociologismo” un tanto al chilo, ricordare quel tempo può sommessamente aiutare, per chi vuole, a non affogare nelle banalità del presente.
Come chiudere? Con la pagina del commiato a “senza cena” che riporta questo distico (ma con la firma abrasa dal pudore dell’autore):
Gianfranco Colasante