Nel 2016 la Scuola dello Sport ha celebrato il suo cinquantenario e Giuseppe “Peppe” Gentile ha pescato tra i suoi ricordi e qui ci racconta il suo “avvicinamento” alla Scuola Centrale dello Sport e poi la frequentazione, ricordando gli insegnanti, tutte personalità di altissimo livello del mondo accademico e culturale di quegli anni e poi…. Ma lasciamo a lui la narrazione:
“Nel periodo in cui mi preparavo alle Olimpiadi, era il 1966, feci un’ esperienza che ha segnato la mia vita.
Fui invitato da Doney, il notissimo bar di via Veneto, da Giacomo Mazzocchi, mio caro amico, ottimo giocatore di rugby guarda caso anche lui del C.U.S. Roma e allora segretario della futura Scuola dello Sport. Stava reclutando persone di un certo passato, e possibilmente futuro, disponibili ad iscriversi ad una istituendo scuola di sport destinata a formare tecnici e dirigenti sportivi.
Eravamo in tre intorno al tavolino, era con noi il mio caro amico di sempre Gianfranco Carabelli, che conoscevo dal 1961, quando insieme frequentavamo la scuola di atletica leggera di Formia ed insieme eravamo già stati nella Nazionale di Atletica Leggera.
Giacomo tesseva le lodi di questa importante iniziativa e non ebbe molta difficoltà a convincerci, anzi, quando io e Gianfranco rimanemmo soli, ragionammo sui motivi per cui ci sembrava valesse la pena intraprendere questa avventura.
L’alea che correvamo era ampiamente bilanciata dalla comune passione per lo sport.
Decidemmo subito di aderire con l’incoscienza peculiare dei giovani intraprendenti e sognatori a quella che divenne una delle esperienze più belle della mia vita; poi lo sport ed in particolare l’Ente preposto alla gestione dello sport in Italia mi diede la possibilità di rimanere a lavorare nell’ambiente in cui avevo acquisito maturità e competenza.
Grazie al Coni ho potuto concretizzare l’aspirazione di far provare anche ad altri l’esperienza irripetibile del fare sport. Ho potuto far coincidere il lavoro con il divertimento, dedicandomi a cose che mi piacevano molto e per le quali venivo addirittura pagato! Tra i ricordi più gradevoli rimangono le lettere dei genitori di alcuni giovanissimi atleti che avevano preso parte ai Giochi della Gioventù, che mi ringraziavano per l’opportunità offerta ai loro figli di fare un’esperienza davvero speciale.
Sembrano e sono altri tempi ma andava proprio così!
Tornando alla Scuola: partecipai al concorso indetto dal Coni. I principali requisiti richiesti erano l’aver praticato con un certo successo una disciplina sportiva olimpica e possedere il diploma di scuola media superiore. Gli esami di ammissione prevedevano, oltre ai test psico- attitudinali e fisici , un tema di italiano ed un colloquio orale.
In occasione del colloquio, feci il mio primo incontro con Vincenzo Cappelletti, allora direttore e vice Presidente della Enciclopedia Italiana, nonché consulente culturale del Ministro degli Interni e nostro docente di Storia e Cultura contemporanea. Era persona coltissima i cui interessi, che spaziavano dalla medicina alla filosofia – materie nelle quali era laureato – consentirono a noi studenti di prendere piena consapevolezza del significato culturale dello sport: nelle sue lezioni emergevano aspetti sino ad allora impensati, o meglio, scarsamente valutati, rispetto al valore culturale dell’esperienza sportiva, confinata solitamente entro i limiti della semplice prestazione sportiva.
Ricordo per esemplificare quando si soffermò su un verso di Pindaro che, con un approccio tutto moderno, omologava il vincitore ed il vinto nel comune riconoscimento del reciproco valore.
Ho citato per primo Cappelletti perché rappresentò, per via del colloquio preliminare all’ammissione, il mio primo approccio con il corpo docente della Scuola dello Sport.
Ma devo subito aggiungere che tutti gli insegnanti che avemmo la fortuna di incontrare erano studiosi di alto livello: Sergio Cerquiglini, Direttore dell’istituto di Fisiologia Umana alla Sapienza e nostro docente di fisiologia che sapeva mettere insieme profonda competenza scientifica e grande trasporto nel trasmetterla a noi studenti: quando faceva lezione aveva l’abitudine di appoggiarsi ad una lunga e consistente bacchetta alzandosi dalla sedia dietro la cattedra; bacchetta che abitualmente usava per indicare qualcosa sulla lavagna; capitava che si appoggiasse troppo a questa bacchetta e che, preso dalla foga dell’insegnamento, perdesse l’equilibrio rischiando di cadere dalla pedana.
C’era poi Vincenzo Virno, nostro docente di anatomia umana e titolare della stessa cattedra alla Sapienza, che sapeva animare con la sua colta “napoletanità” una materia solo apparentemente poco coinvolgente, e ancora Eugenio Enrile, docente di Storia e Ordinamento dello sport.
Da Giancarlo Topi , insegnante di Scienza dell’alimentazione, apprendemmo tutto ciò che si deve sapere sul potere energetico degli alimenti in riferimento alle esigenze di un atleta e quindi sulla necessità di modularne l’uso in base alle varie fasi dell’attività sportiva: allenamento, periodi pre-gara, ecc., senza però dimenticare il valore “edonistico” del cibo. Sono conoscenze oggi quasi ovvie: ma non possiamo dimenticare che parliamo, purtroppo per me, di un tempo in cui lo studio di questa materia aveva del pionieristico.
Tra gli altri docenti di materie teoriche, mi fa piacere ricordare Vincenzo Capone, docente di Auxologia, materia importantissima per imparare i tempi ed i modi della crescita del fisico umano e per evitare quegli errori, allora molto frequenti, di sovraccarico di lavoro riservato ad atleti troppo giovani per sopportarlo.
Una menzione adeguata merita anche il professor Bernard Hikey. Insegnava inglese, ma mi è rimasto impresso perché, grazie a lui, mi accostai al modo tipicamente anglo-sassone di affrontare lo sport e incominciai a comprendere come la cultura sportiva potesse influenzare e determinare le scelte che poi si fanno nella vita.
Un assistente particolare che divenne poi un “santone” dello sport e per lo sport era il professor Antonio Dal Monte, per gli amici Toti. A lui l’Accademia Maestri di sport ha voluto riconoscere il titolo di socio onorario. Partecipava insieme con noi, seduto all’ultimo banco, alle lezioni di Cerquiglini. In seguito, per primo e forse per alcuni aspetti unico allora, incominciò a parlare di fisiologia umana applicata allo sport. Molti certamente ricordano le ruote lenticolari che consentirono a Moser di infrangere più volte il record del mondo, ma pochi sanno che studiò di canottaggio, di nuoto e di tanti altri sport ; tali studi consentirono ad atleti grandi e meno grandi di ottenere il massimo da se stessi.
Questo il mio ricordo dei docenti più rappresentativi delle materie teoriche che avemmo la fortuna di conoscere. Va aggiunto che il numero decisamente modesto degli alunni di ogni corso permetteva a ciascuno di noi una frequentazione con il corpo docente molto stretta, quasi da college, che consentiva l’instaurazione di rapporti personali particolarmente fruttuosi sia dal punto di vista umano che didattico. Si trattava di una congiuntura felice di cui forse allora non sapevamo neppure cogliere l’importanza ma che oggi, specie se posta a confronto con quanto avviene nelle nostre Università, si rivela in tutta la sua pienezza.
Il Coni aveva posto una particolare cura nello studio della formazione di degli allievi della Scuola dello Sport: ed ecco comparire, cosa che allora apparve a molti piuttosto bizzarra, tra le materie facoltative, l’insegnamento del bridge. Un paio di volte a settimana, la sera, veniva da noi il dottor Attili. In quella occasione il professor Vittori, ottimo giocatore, faceva parte formalmente dei discenti e al termine delle lezioni in aula, si dilettava nell’ affiancare l’insegnante partecipando a mini tornei serali.
Oltre alle materie teoriche, i corsi prevedevano anche, così come avveniva negli ISEF, materie pratiche: chi frequentava la Scuola si applicava allo sport che praticava , ma doveva scegliere anche una seconda disciplina che non necessariamente doveva aver praticato ( anche se allora quasi tutti noi allievi avevamo fatto gare anche in altri sport ).
Tutti indistintamente frequentavamo le lezioni di preatletismo generale e di teoria generale dell’allenamento. Anche in queste materie i nostri insegnanti era quanto di meglio esisteva sul “mercato”; la maggior parte degli insegnanti erano commissari tecnici delle Federazioni e/o tecnici federali. Nel caso in cui in alcuni sport non ci fossero stati tecnici ritenuti sufficientemente preparati, si chiamavano anche professionisti di altri Paesi.
Nel menzionarli, spero di non dimenticare nessuno perché il meglio dello sport italiano approdò allora alla Scuola dello Sport: Giorgio Owerbeger medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Berlino, ottimo ostacolista, era il nostro insegnante di teoria generale dell’allenamento.
Carlo Vittori era il docente di preatletismo generale ed assistente di Obervegher di Atletica Leggera insieme a Nicola Placanica e Vittore Milone, tecnici il primo presso la scuola di Formia ed il secondo di velocità ed ostacoli presso la F.I.D.A.L.
Non mi soffermo sul valore di Vittori come tecnico e come insegnante in quanto universalmente riconosciuto in tutto il mondo sportivo. Voglio però osservare che approdò alla Scuola quasi come “sconosciuto“, pur avendo fatto parte in gioventù della staffetta “quattro per cento” della Nazionale di atletica leggera che partecipò alle Olimpiadi di Helsinky. Ma la sua fulgida carriera di allenatore cominciò per la Scuola e con la Scuola.
Nello Paratore era commissario tecnico della Pallacanestro e aveva diretto la squadra che aveva partecipato alla Grande Olimpiade.
Natalino Rea era tecnico capo della Federazione Pugilistica italiana che portò tanti grandi campioni al successo. Uno fra tutti Nino Benvenuti.
Ermanno Pignatti era il commissario tecnico del Sollevamento pesi ed insegnante alla Scuola dei pesisti. Di lui ricordo il rigore nell’insegnamento e l’ approccio quasi religioso con cui affrontava la sua materia.
Per la Pallavolo l’insegnamento era affidato a Ivan Trinjstic, per il calcio Giovanni Ferrari e Nicola Comucci. Agabio e Manoni si occupavano di Ginnastica artistica, Pessina e Pignotti di Scherma, Dick Beaver di Nuoto e Vjaceslav Kozarskyi di Lotta.
Molti nostri insegnanti erano tecnici affermati mentre altri si sono affermati anche attraverso la Scuola.
Desidero in ogni caso sottolineare che dalla Scuola sono emersi dei veri talenti sia dal punto di vista tecnico che da quello dirigenziale.
Ne citerò solo due a titolo esemplificativo: Sepp Messner e Roberto Fabbricini. Il primo commissario tecnico per lunghi anni della “valanga azzurra” ed il secondo attuale Segretario Generale del Coni.
Ma ciò che più mi preme è inquadrare il periodo in cui è nata la Scuola dello sport e i motivi politici e culturali che ne hanno propiziato la creazione. Siamo nel ’64: alle Olimpiadi Tokyo i successi non furono eccezionali e le previsioni per il 1968 a Città del Messico non erano rosee.
Si avvertiva l’esigenza di dare una sferzata allo sport italiano e mostrare all’Italia sportiva la volontà di invertire un trend che minacciava di essere negativo.
Non si poteva continuare a confidare nell’inventiva degli italiani. Così nascono la Scuola dello sport e i Giochi della Gioventù.
Giulio Onesti, da Presidente illuminato quale era, ebbe una felice intuizione: curare la formazione dei suoi quadri, tecnici e dirigenziali, e contemporaneamente promuovere in modo massiccio la pratica sportiva dei giovani.
Fu solo una intuizione politica ovvero esattamente quello di cui aveva bisogno lo sport italiano?
Certamente il Coni aveva bisogno di un momento unificante in cui tutte le Federazioni si riconoscessero ed un organo che studiasse per tutti quei fenomeni che li accomunano.
Parlo di promozione, di teoria generale dell’allenamento, di formazione in genere ed in particolare di metodologia, di didattica, di omologazione dei sistemi organizzativi, di certificazione di qualità (allora già se ne parlava), di preparazione Olimpica, eccetera.
Forse la Scuola non ha risolto “in toto” questi problemi, ma ha gettato quel seme che cresce solo con il tempo.
I processi di crescita hanno l’esigenza di adattarsi al mutare dei tempi. Molto dipende dal rigore e dalla memoria del passato che indica la “via”.
A noi Maestri hanno insegnato ad usare la ragione, senza dimenticare che la passione è il motore fondamentale che consente di raggiungere la vetta.”