La nostra Accademia ha stretto un accordo con il mensile SKI Race Magazine, edita da Mulavero, rivista che riguarda, è vero, lo sci, ma che tende ad analizzare tutti gli aspetti legati alla prestazione di alto livello, nella convinzione che non esistano, al di là delle specifiche tecniche di ogni specialità sportiva, barriere tali da confinare le analisi all'interno di ogni singolo sport.
In parole povere vi sono dei comuni denominatori che sono mutuabili da uno sport all'altro e gli studi che SKI Race Magazine pubblica contengono elementi di portata generale, che stimolano l'applicazione da una disciplina all'altra.
Iniziamo questa collaborazione pubblicando un'interessante analisi realizzata da Claudio Ravetto, che è nel numero della Rivista attualmente in uscita. sui nuovi materiali e sulle conseguenze che questi provocano, tanto da richiedere interventi di innovazione nella preparazione atletica, per favorire, appunto, l'adattamento a questi nuovi materiali.
LA GIUSTA DOSE
I nuovi materiali non hanno risolto il problema degli infortuni, anzi. Ma ci sono atteggiamenti tecnici e posturali che possono esasperarne ancora di più la pericolosità
di Claudio Ravetto
Che bello sport lo sci alpino, ne sono innamorato. E per fortuna sono ancora tantissimi gli appassionati di questa disciplina davvero coinvolgente. È divertente, vario e mai uguale, si svolge all’aperto, in un ambiente favoloso, interessa globalmente il fisico, è adatto a tutti, fa anche figo praticarlo, cosa possiamo pretendere di più da un’attività fisica?
Purtroppo però, come avviene in qualunque ambito, ci sono da rilevare alcuni aspetti negativi. Nel nostro caso riassumibili in due categorie: i costi e la pericolosità. Premetto che non mi piace sottolineare le negatività di un qualcosa che mi piace così tanto. Non sono un esperto di marketing, ma credo che la prima regola per promuovere un prodotto sia di enfatizzarne i pregi, non calcare la mano sui difetti. Noi addetti ai lavori non abbiamo troppo l’abitudine di farlo: mi è capitato di sentire atleti di assoluto valore parlare davanti a ragazzi di club e a scolaresche sottolineando quanti siano i sacrifici necessari per emergere, quanto sia faticoso e rischioso lo sci, ed elencando tutte le difficoltà che hanno incontrato nella loro carriera. Unico effetto di questa comunicazione negativa è quello di far sorgere nel giovane che ascolta una domanda: «ma chi me lo fa fare?». Tutte storie! La carriera sportiva è affascinante e gratificante, fortunati coloro che riescono a percorrerla. Questo è il messaggio che dovrebbe passare. Gli aspetti negativi, però, esistono, e non posso esimermi dall’analizzarli, sperando di farlo in modo costruttivo.
Riguardo ai costi, effettivamente diventati eccessivi, posso aggiungere poco a quanto già si conosce, se non rimarcare (come ho già fatto in un articolo precedente) che esiste il diritto allo sport e che quindi tutti i bambini dovrebbero poter provare pressoché gratuitamente le discipline della montagna almeno una volta. Le istituzioni, in primis la FISI, dovrebbero farsi promotori di questa iniziativa. Si scia in montagna e sulla neve, non fra i banchi di scuola!
Riguardo, invece, alla pericolosità dello sci agonistico, c’è tanto da ragionare. Ha fatto un gran parlare negli ultimi anni l’evoluzione del materiale e della sua incidenza sulle statistiche degli infortuni. E altrettanto si è polemizzato sulle scelte della Federazione Internazionale di regolamentare lunghezza e raggio degli sci, prima ad alto livello poi anche nelle categorie giovanili, e sugli effetti prodotti da questa scelta. Personalmente ritengo quello del materiale un argomento di primaria importanza nella prevenzione degli infortuni e nella sicurezza dello sciatore, ma non certamente l’unico o il più determinante. Sono profondamente contrario alle sciagurate scelte della FIS, poiché il cambiamento porta a un immediato aumento dei picchi di infortunio e, dopo pochi anni (come è puntualmente avvenuto), ad un adattamento da parte degli atleti che riescono ad ottenere prestazioni tecnico-atletiche pari a quelle antecedenti al cambiamento, ma a questo punto con materiale meno performante quindi più stancante e più pericoloso. Noi allenatori anche in questo caso possiamo farci poco, le decisioni sono politiche e prese sempre sopra le nostre teste, è quasi inutile contestare e protestare, bisogna per forza subirle.
Tutti aspetti quindi esterni a noi, fuori dalla nostra possibilità di azione diretta. Ma anche noi abbiamo le nostre grosse responsabilità a riguardo dell’incidenza degli infortuni sulle carriere degli atleti, e le abbiamo nella nostra sfera di competenza, quella tecnico-atletica. Ma attenzione, con aspetto atletico non intendo la preparazione fisica a secco, ma la sua incidenza sulla prestazione sciistica. Spesso, infatti, si considera lo sci solo come espressione di tecnica pura, quasi fosse arte, senza tenere conto, invece, di quanto sia notevole il carico fisico che agisce sullo sciatore. Carico, parola chiave nell’allenamento sportivo, spesso dimenticato nell’allenamento sciistico. È indubbio che in altri sport è molto più semplice misurare il carico esterno: i chili sollevati, i chilometri percorsi, il numero di prove e di serie sono molto indicativi in questo senso; ben poco dicono, invece, nel nostro sport. Ancora più complesso se si deve valutare il carico interno, cioè l’adattamento fisiologico e le modificazioni che subisce l’organismo in seguito alla somministrazione dell’esercitazione sciistica. Proprio questo è il punto: noi non proponiamo ai nostri atleti chili sulle spalle o distanze da percorrere o lunghe serie a ritmi intensi, ma elargiamo pendenze da scendere a velocità sostenuta. In realtà il nostro allenamento è costituito da continui salti in basso da varie altezze, in curva con forti forze inerziali laterali, il tutto ad alta velocità di percorrenza che accentua ancora di più le forze in gioco. Non è poco, anzi. Altro che una seduta in sala pesi proposta in giovane età! Il carico esterno nella nostra disciplina può essere, potenzialmente, di gran lunga superiore e di questo bisogna assolutamente tenere conto nella programmazione dell’attività.
Se poi noi allenatori, per primi, proponiamo adattamenti tecnici che vanno ancora di più ad accentuare i rischi, allora è chiaro che l’incidente è subito dietro l’angolo. Mi riferisco in special modo all’esasperato uso del ginocchio in fase di curva, tanto in voga nelle proposte tecniche dell’ultima ora. Specifico meglio: molti insistono sul disassamento verso l’interno curva delle ginocchia per aumentare la presa di spigolo, e di seguito sull’anticipata uscita delle stesse a fine curva per svincolare lo sci e reinserirlo nella curva successiva. Già dal punto di vista della tecnica pura non sono d’accordo, in quanto ogni disassamento in un senso delle articolazioni centrali della catena cinetica provoca un allontanamento nel senso opposto delle estremità. In pratica, se lo scopo dell’azione appena descritta è quello di aumentare il vincolo, in realtà si ottiene l’effetto esattamente opposto. Il disassamento è gravissimo e deleterio per la struttura stessa ma è proprio nel momento di maggiore carico meccanico che potrebbe risultare potenzialmente devastante. È semplicissimo da comprendere: regge meglio un carico verticale una colonna dritta di una colonna storta. Basta dunque un lieve piegamento con arretramento per trovarsi nella posizione più a rischio per la rottura del crociato: piegati indietro e con il ginocchio intraruotato, per recuperare l’equilibrio si contrae il retto femorale che, inserendosi sulla tibia, ne provoca lo scivolamento anteriore con relativa rottura del legamento. In questo caso non certo per colpa né del materiale né della FIS, ma esclusivamente della nostra dabbenaggine.
Certo non sono così ingenuo da credere che nel percorrere delle curve con gli sci, sottoposta a forze rotazionali, verticali, tangenti così forti, la struttura possa rimanere costantemente in asse, ma l’intenzione dello sciatore deve essere quella di stabilizzare, riallineare, non certo quella di mettersi coscientemente in una condizione svantaggiosa e pericolosa. Se poi questi consigli tecnici vengono dati a bambini, a ragazze nell’età dello sviluppo o ad atleti con problemi posturali, allora si va certamente incontro ai guai.
Con questo non voglio dire che bisogna sempre avere un atteggiamento corretto e in asse se no ci si fa male, anzi. Non sembri un contrasto, bisogna al contrario far conoscere il disequilibrio sia sugli sci che in atletica. Ma a piccole dosi, con la giusta gradualità e possibilmente in situazioni protette.
Con quanto detto voglio semplicemente far riflettere tutti i tecnici su questi argomenti estremamente importanti per la carriera dei giovani atleti. Dobbiamo assumerci in prima persona le grandi responsabilità che abbiamo nell’avvicinare, guidare e proteggere il materiale umano che ci viene affidato.