... come lo ricorderemmo oggi?
Probabilmante come un grandissimo campione, vincitore di 88 gare, medaglia d'oro ai Giochi di Londra del 1908. Certamente non sarebbe quel personaggio che è diventato proprio a causa di quella vittoria mancata, emblema della fatica, della sofferenza, della fragilità e le immagini di quel drammatico finale della gara olimpica non commuoverebbero ancora ogni volta che vengono riviste. Riteniamo che da quella sconfitta nacque ed è ancora vivo il mito di Dorando Pietri. Appunto, un mito. Ed il suo mito rischiò di provocare un grande pasticcio quaranta anni dopo, ai Giochi di Londra del 1948.
Ce lo racconta Augusto Frasca.
Il falso Dorando
Fu la seconda sconfitta consecutiva a convincerlo. Ventiseienne, a novembre annunciò il ritiro. Prese un calcolatore, tirò le somme. Centoventuno gare, dalla prima di Bologna, 2 ottobre 1904, all’ultima di Stoccolma, 1911, 15 ottobre. Le ottantasette vittorie segnate in mezzo mondo, a Roma, Parigi, New York, a Chicago, Toronto, San Paolo, Buenos Aires, esotismi di terre vergini alla conoscenza di un italiano di scarsa cultura, ne avevano fatto uno dei grandi campioni d’inizio Novecento, archetipo d’un remunerativo professionismo alla faccia delle legnose beghine del Comitato olimpico internazionale che il destino aveva sottratto ad un’esistenza in cui, unica sconsolante certezza, garzone nella pasticceria Roma al numero 42 della grande piazza carpigiana, era il cambio quotidiano dell’alba e del tramonto.
Rientrato a Carpi, in tasca la patente di guida rilasciata dal Genio Civile di Modena, Dorando acquistò la sua prima vettura, una Fiat 110 hp. In un’Italia di provincia fatta di pane e di sale, l’apertura del Grand Hotel con annessi caffè, ristorante, garage per servizio pubblico, diciotto dipendenti, stoviglie in alpacca, cinquantaquattro vani inaugurati con grande sfarzo sotto l’occhio famelico del fratello Ulpiano, aveva soddisfatto le ambizioni ma compromesso le tasche. Pochi anni, e dinanzi alla ristrettezza degli introiti il nostro uomo cedette immobili e impresa commerciale ritagliandosi un servizio di autonoleggio.
Il 22 maggio 1915, il caporale Pietri Dorando fu chiamato alle armi e inviato in territorio bellico. Nel novembre del 1916, un’insufficienza mitralica riscontrata nell’Ospedale militare di Bologna lo rispedì a casa. Nel 1921, tessera 47.363, si iscrisse ai Fasci Italiani di combattimento. Due anni dopo, venduti abitazione e terreni circostanti, insieme con la moglie Teresa Dondi e la piccola Gina, nipote prediletta e in pratica figlia adottiva, abbandonando le livide stagioni invernali e i sudari bagnati delle opprimenti ore d’estate della pianura emiliana, si trasferì nell’aria di Sanremo attivando un dignitoso servizio di autonoleggio. Tra i nomi di clienti recuperati in anni di ricerche, Dino Grandi, ministro delle Corporazioni, Pietro Badoglio, maresciallo d’Italia, e Walter Benjamin, il filosofo e saggista tedesco che nel settembre 1940, inseguito dalla Gestapo, sarebbe morto suicida nel passaggio della frontiera franco-spagnola.
Nel 1936, Dorando ricevette da Roma due telegrammi a firma Giorgio Vaccaro, segretario generale del Coni. Con il primo gli veniva comunicato l’inserimento ufficiale tra gli allenatori federali con la responsabilità dei maratoneti e <<con un’indennità mensile che non potrà che essere modesta, in quanto, come tu sai, le disponibilità finanziarie sono limitate>>. Con il secondo, la nomina a Cavaliere della Corona d’Italia e l’assegnazione della medaglia d’oro al Valore Atletico, onorificenza istituita da Mussolini nel 1932, primi assegnatari gli olimpionici di Los Angeles protagonisti di uno strepitoso secondo posto alle spalle degli Stati Uniti nella classifica finale.
Sei anni dopo, Dorando Pietri morì, mai immaginando che il suo nome sarebbe divenuto leggendario, che Londra e New York gli avrebbero destinato vie, che nella ricorrenza del centenario del 1908 una regina avrebbe voluto toccare la coppa donatagli dalla nonna Alessandra, che a Carpi un personaggio eccezionale a nome Ivano Barbolini avrebbe propiziato l’innalzamento di una statua di oltre sette metri e la produzione di un volume, La corsa del secolo, a memoria perpetua. In pieno conflitto mondiale, il numero 28 del registro degli atti di morte del Comune di Sanremo annotò che <<il sette febbraio millenovecentoquarantadue, alle ore diciannove, nel Civico Ospedale, è morto Pietri Dorando, di anni cinquantasei, per emorragia celebrale, ictus asistolico>>. Cinque giorni dopo, dinanzi al notaro Minoja, fu reso pubblico il testamento olografo, su carta intestata Dorando Pietri Autovetture tel. 4-22: <<Desidero che sulla mia tomba sia ricordata la mia vita di campione podista. Per i funerali mi rimetto alla pietà di mia moglie. Al posto dei fiori, sia fatta beneficenza. Prego anche chi mi assisterà di non dimenticarsi che voglio mi sia messa la camicia nera con la sciarpa di campione italiano vinta a Vercelli nel 1905>>.
1948. Sei anni dopo la scomparsa di Dorando. Le ferite appese all’anima e alla pelle di milioni di uomini decimati e sconvolti, Londra si apprestava tra incalcolabili difficoltà ad accogliere con la XIV Olimpiade quanto restava dello sport mondiale. Lord Burghley, l’olimpionico presidente del Comitato organizzatore, l’antico avversario del soffiatore di vetri Luigi Facelli sugli ostacoli internazionali, volava all’Aja per ringraziare l’Olanda dei 100 mila chili di legumi e frutta che il popolo dei tulipani e dei mulini a vento, di Hieronymus, Vermeer e van Gogh, aveva spedito nella capitale britannica ancora assediata da macerie e lacrime.
Nell’anno, Bartali aveva spezzato le reni ai francesi, il Torino di Valentino Mazzola s’era cucito sul petto il quarto scudetto consecutivo, Pino Dordoni dominava sulle strade d’Italia, Brera discettava sulla Gazzetta di formule nuove del campionato di società di atletica, l’Italia dei motori pativa l’angoscia degli incidenti mortali di Achille Varzi e di Omobono Tenni, De Sica faceva piangere il prossimo con il dramma del ladro di biciclette.
Quattro mesi prima dei Giochi, il Comitato londinese aveva deciso di invitare i superstiti di Londra 1908. Il 5 aprile, sul Daily Express, apparve una corrispondenza da Birmingham a firma Marc Adam: <<Dorando Pietri, l’eroe della maratona del 1908, vive a Birmingham, dove gestisce da otto anni il Dorando Café in un sobborgo della città. Dorando accetta di buon grado di dare il via alla maratona del prossimo agosto, e promette di fare anche un giro di pista a scopo dimostrativo con gli indumenti dell’epoca>>.
Da tempo residente a Londra con accorte intraprese imprenditoriali, alla lettura della corrispondenza Augusto Formigoni cadde dalla sedia. Ripreso fiato, liberatosi dagli impegni, salì le scale del giornale, contestò il fatto al direttore e, dinanzi ai suoi dubbi, alle 11 dell’8 aprile spedì a Carpi, all’indirizzo della Ginnastica La Patria e al presidente Giuseppe Marzi, un telegramma così concepito: <<Mandami immediatamente ragguagli morte Dorando quando dove e possibilmente locazione sua famiglia stop impostore costì spacciasi per Dorando stop noi tutti bene saluti baci a tutti Augusto>>.
Il messaggio giunse a destinazione alle 17.48, trasformando in pochi minuti la meravigliosa piazza carpigiana dei Pio in un’indignata agorà. Comitato olimpico, Federazione di atletica e Ambasciata italiana si mobilitarono. Da Londra, implacabile, Augusto Formigoni insisteva: <<Tento far causa per danni a nome moglie occorre sua procura stop pubblicità inevitabile occorrono certificati nascita et morte stop sostengo tutte spese>>. Il 30 aprile, l’Evening News pubblicò una sconcertante seconda puntata: <<È arrivato a Londra un uomo, piccolo e grassoccio, invitato ad un pranzo ufficiale del Comitato olimpico. È il signor Dorando Pietri, il leggendario maratoneta della Olimpiade del 1908. È al corrente – gli chiedemmo – che in Italia dicono che lei è morto a Sanremo nel 1942? Il signor Dorando rise di gusto... sono il vero Dorando, quello morto era un mio fratellastro a cui prestai il nome perché facesse quattrini>>.
La faccenda andò avanti per le lunghe, e neanche una lettera ufficiale firmata da Bruno Zauli e da Marcello Garroni, spedita dal Coni a lord Burghley, sembrò scalfire l’imperturbabilità del personaggio e la credibilità acquisita negli ambienti olimpici londinesi. Finché, a fine luglio, la mossa finale: tre carpigiani. Giuseppe Marzi, Archimede Tirelli, tenuto a battesimo da Dorando, e l’avvocato Antonio Zanoli, partirono per Londra, recuperarono Augusto Formigoni, si incontrarono con il direttore del Daily Express concordando un piano d’azione. Il 5 agosto si presentarono a Birmingham. Il falso Dorando, Pietro Palleschi, toscano di Calamecca, nulla capì del dialetto con cui i quattro carpigiani lo affrontarono. Tuttavia, tenne duro a lungo, farfugliando di parentele, di fratellastri, di sosia, di donne, di nomi falsi, di sostituzioni, ma la conclusione fu inevitabile, e il capitolo della maratona del 1908 sembrò archiviato.
Ma il 7 agosto, finale dei Giochi con la gara di maratona, come guidato da un sussulto pirandelliano, con impudenza pari alla stolidità, Palleschi si presentò allo stadio rivendicando ruolo ed inviti. Ma la farsa fu definitivamente sconfessata dal conte Alberto Bonacossa. Seduto a fianco di lord Burghley, il membro italiano del CIO fu lapidario: <<This Dorando from Birmingham is an impostor. The real hero of the 1908 Marathon in buried in Italy>>. Quanto accadde successivamente fu in linea con la miserevole personalità dell’uomo di Calamecca: preso di mira dalle autorità britanniche, per affari mal condotti legati alle sue attività commerciali, alla fine dell’anno al falso Dorando si aprirono le galere di sua Maestà.
Le foto, nell'ordine:
Dorando garzone nella pasticceria Melli a Carpi nel 1904; Ingresso di Dorando nello Stadio White City 1908; La Regina consegna la Coppa d'Argento a Dorando 1908; 1948 il "falso" Dorando.