28/10/2016

Dal 3 al 9 ottobre la Scuola dello Sport ha celebrato il 50° della sua istituzione.

Numerosi i temi affrontati nei convegni e seminari che si sono svolti nella cornice dell'Acquacetosa: dall'arte alla storia, dalla tecnica e metodologia, all'ideale olimpico.

Per noi Maestri dello Sport il clou è stato rappresentato dal convegno del 5 ottobre dedicato a Giulio Onesti, vale a dire a colui che la Scuola ha ideato e voluto.

Desideriamo qui evidenziare due momenti molto significativi ed emozionanti delle celebrazioni: l'intervento del professor Vincenzo Cappelletti ed un articolo di Augusto Frasca che ricorda i personaggi di quella magnifica avventura che è stata la Scuola Centrale dello Sport.


Sport e Cultura

La testimonianza di ammirazione, stima e affetto che ho l’onore di rendere a Giulio Onesti, ricordandolo insieme a Giorgio Oberweger, Antonio Venerando e Carlo Vittori, investe criticamente una sostanziale intuizione: il nesso, la complementarità che erano venuti a stabilirsi tra sport, scuola e cultura. La figura di Onesti, in particolare, ci appare come quella di un geniale innovatore.

Lo sport è al centro della sua intuizione: ma uno sport ricco di significato personale e di valore civile. Quella che viveva Onesti con i suoi contemporanei, era una crisi europea, ma, in prospettiva, planetaria. La scuola, con la sua densità di problemi aperti, esercitava una forte, irrecusabile attrattiva. Una parola, un termine si salvano, se diventano significato, progetto. E questo accadde con la “scuola dello sport”, un geniale azzardo nel mercato delle parole. Due mondi si trasformavano insieme: la cultura e le istituzioni alle quali è inevitabile che essa si affidi. In quegli anni, tra cultura e sport, la distanza non poteva essere maggiore. In Onesti dovette esserci una profonda intuizione e forse, ancor prima, un radicale interrogativo. Su che cosa facciamo leva, su che cosa ci fondiamo? Se cambiamo qualcosa, dobbiamo andare verso un incremento di significati, di proposte e, prima e sopra tutto, di plausibilità e necessità oggettive. Giulio Onesti era un idealista tenuto a freno da una ammirevole e straordinaria esigenza di concretezza. Dopo averlo conosciuto, dovetti dare ascolto all’impressione di essermi imbattuto in una persona già nota. Ma a livello di giganti.

Era proprio cosi. L’incontro con Onesti aveva per così dire attivato un colloquio mai avvenuto, e tuttavia immaginato e reso concreto dall’esperienza dell’Enciclopedia Italiana. Gentile rappresentava per me l’esempio di un resuscitatore di valori e di persone. Era stato sedotto dall’incontro con un’entità invisibile ma possente: il pensiero, l’umano pensiero che forse trascende la vita. Anche nell’entusiasmo che si era ridestato attorno allo sport, con il farsi concreta e duratura la speranza di pace, c’era l’impronta di un nuovo mondo, ispirato alla speranza di un progetto di società, mondiale, dove la competizione amichevole segnasse il limite da non varcare. La cultura, cresciuta oltre ogni limite, prometteva alla società umana, alla storia, alla vita, la sfida della conoscenza, l’itinerario della pace che non abbia la guerra come alternativa.

Tra l’Enciclopedia Italiana e il CONI si aprì una fervida e creativa amicizia: sia consentito di presumere che oggi siamo qui anche per comprendere che le due grandi Istituzioni non possono sottrarsi alla responsabilità di un comune impegno, di una feconda collaborazione. La Scuola dello Sport non può non collocare se stessa nella prospettiva dell’istruzione universitaria. Per l’incontro odierno, è una prospettiva che non sarebbe pensabile senza che si apra a un fecondo lavoro di collaborazione. Il nome di Giovanni Gentile, fautore di una scuola italiana di riconosciuto prestigio mondiale, deve stare accanto a quelli di altri, che hanno continuato il suo lavoro, con l’aggiunta della scuola scientifica accanto a quella classica , e della scuola dello sport accanto a quelle letteraria e scientifica. Oggi possiamo affacciarci alla vicenda storica europea con una ricchezza e integrità di aperture formative, che possono precorrere un nuovo Rinascimento e un contributo sostanziale del nostro Paese alla vicenda mondiale. Lo scuola dello sport vi avrà il suo posto, ricco di responsabilità, di creatività, di futuro.

Vincenzo Cappelletti

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I 50 anni di una Scuola

La stagione 1966 fece registrare una delle migliori raccolte mai realizzate nella storia ultracentenaria dello sport italiano. Fu nel dicembre precedente, ventiduesima sessione del Consiglio nazionale del CONI, che tra gli affreschi di Angelo Canevari e Luigi Montanarini prese vita l’annuncio di Giulio Onesti volto ad istituire la Scuola Centrale dello Sport. Pochi mesi, e il 5 maggio 1966 quell’annuncio si trasformò in una decisione ufficiale della Giunta esecutiva. Grande iniziativa, in un anno pur tuttavia segnato dalla seconda tragedia collettiva patita dallo sport nazionale dopo lo schianto granata del 1949 sulla collina di Superga: Brema, altro aereo, l’anima giovane del nuoto distrutta tra quarantadue sventurati nel rogo incancellabile di un Convair della Lufthansa, nei nomi e con i nomi di Bruno Bianchi, di Amedeo Chimisso, Sergio De Gregorio, Chiaffredo Rora, Carmen Longo, Luciana Massenzi, Daniela Samuele, di Paolo Costoli e di Nico Sapio. Il 1966 dello sport fu anche stagione dei titoli mondiali persi da Nino Benvenuti e Salvatore Burruni, della sconfitta dell’Italia del calcio ad opera d’un oscuro nordcoreano a nome Pak Doo Ik, delle fulminanti affermazioni europee di Abdon Pamich, di Eddy Ottoz e di Roberto Frinolli sui terreni atletici di Budapest.

Della nascita della Scuola, il 2016 ha celebrato il cinquantenario. Poiché i documenti hanno un senso in qualsiasi ricostruzione storiografica, mette conto evocare i nomi di coloro che nell’occasione sottoscrissero quella nascita: Giulio Onesti presidente, Adriano Rodoni e Giuseppe Pasquale vice, Beppe Croce, Diodato Lanni, Renzo Nostini, Giosué Poli componenti, Mario Saini segretario generale. Assistenti, Giorgio de Stefani quale membro del Comitato olimpico internazionale, Marcello Garroni, Giordano Bruno Fabjan e Luigi Chamblant vice segretari generali. Sintetizzati testualmente in quattro capoversi, ecco gli scopi all’origine dell’iniziativa. Curare, attraverso corsi triennali, la formazione di personale altamente specializzato per la preparazione degli istruttori nelle varie discipline sportive per il loro inserimento nell’organizzazione sportiva nazionale. Organizzare corsi di perfezionamento, aggiornamento e specializzazione per gli istruttori di educazione fisica e delle varie organizzazioni sportive. Promuovere il progresso di studi e ricerche volti ad utilizzare, nel campo dello sport, i dati e i contributi offerti dalle principali scienze. Instaurare una rete di scambi, a carattere culturale e tecnico, con analoghe organizzazioni estere, al fine di seguire in ogni settore gli sviluppi delle varie discipline biologiche, pedagogiche e tecniche.

La Scuola nasceva nello stesso anno in cui, con la pubblicazione di un Libro Bianco, il Comitato olimpico nazionale metteva i governi dinanzi alle loro responsabilità a cospetto di una realtà imbarazzante, avviata fin dal 1946 e progressivamente moltiplicata con la crescita esponenziale dei concorsi pronostici legati al campionato di calcio: lo Stato finanziato da un pallone. Il caso volle che proprio dagli ambienti calcistici uscisse la nomina del primo direttore organizzativo della Scuola, Giuseppe Baldo, estrazione veneta, tra i superstiti della Nazionale condotta da quel grand’uomo che fu e resta Vittorio Pozzo, vincitrice nella rassegna olimpica berlinese del 1936 con le realizzazioni finali contro l’Austria, nei tempi supplementari, di Annibale Frossi. Il corpo docente fu estratto di peso dalla comunità scientifica e accademica nazionale e dalla crema tecnica delle varie discipline. Lo spazio non ne consente una citazione completa, ma si peccherebbe di superficialità ove si dimenticassero i nomi di Vincenzo Virno, Eugenio Enrile, Ferruccio Antonelli, Vincenzo Cappelletti, Sisto Favre, Annibale Vitellozzi, Giorgio Oberweger, primo direttore tecnico, Antonio Dal Monte, Giuseppe Russo, Carlo Vittori, Nicola Placanica, Mario Di Gregorio, Nello Paratore, Riccardo Agabio, Giorgio Pessina, Natalino Rea, Costantino Dennerlein, Ercole Matteucci, Giancarlo Primo.

Da quell’iniziativa, con qualche variante in corso d’opera che sarebbe risultata vincente, e attraverso lunghe, ingombranti, travagliate burocrazie parasindacali, nacque una classe professionale, una nuova frontiera che consentì di mantenere per un trentennio, ad alti livelli di dignità, l’impianto dirigenziale nelle strutture centrali del Foro Italico e nelle federazioni sportive. Un impianto che in più occasioni, soprattutto nelle stagioni Ottanta e Novanta, fece da fertilizzante rispetto ad un ambiente disinvoltamente impoverito da dissennati, medioevali reclutamenti in massa, specie d’origine sabina. In parole povere, il meglio uscito dalla Scuola dello Sport fu il meglio capace di collegarsi con il meglio della precedente generazione di grandi dirigenti, quelli emersi nell’ultimo periodo del ventennio fascista e recuperati nell’immediato dopoguerra, i Bruno Zauli, i Mario Saini, Marcello Garroni, Giordano Bruno Fabjan, Virgilio Tommasi, poi affiancati da personaggi di varia estrazione e provenienza del livello di Mario Vivaldi, Donato Martucci, Angelo Menna.

Duecentotrentaquattro furono i Maestri dello Sport diplomati nei primi nove anni d’attività. Quella generazione, così nevralgica nella piccola grande sto ria dello sport, con i suoi epigoni, è da tempo esaurita, e v’è poco, all’orizzonte, che ne prometta una rinascita. Resta, dal 2013, a spolverare il passato, e a stimolare, nei limiti, il presente, un’Accademia. Chi ne sia curioso, vi si può imbattere nei primi metri dell’impianto dell’Acquacetosa, negli stessi scorci evocati nelle memorie romane di Goethe, proprio sotto lo sguardo in bronzo che la raffinatezza artistica di Dino Morsani dedicò all’uomo che quella Scuola fortissimamente volle, e alla cui affermazione molto si impegnò.

Augusto Frasca


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